tremendieventi

giovedì 31 marzo 2011

S.O.C. (save our children)



Poveri bambini, salvateli per favore dai loro genitori e da questa brutta società. Quello di stamattina è solo uno sfogo di pancia e come tale va preso. Le parole che seguono non sono il frutto di uno studio sociologico nè di un attento esame della realtà che mi circonda. E' uno sfogo puro perchè sono giunto a un livello di esasperazione incontenibile. Oggi leggo sul giornale: 11 clandestini dispersi in mare e un bambino. Ecco, è proprio qui che non c'ho visto più. E' come se si mettesse la ciliegina sulla torta a una notizia che senza quel "...e un bambino" passerebbe quasi inosservata e senza alcun commento. Si parla di undici persone annegate su una carretta del mare nel canale di Sicilia a poche miglia da Lampedusa. Si tratta di 11 vite piene di sogni e di speranze, di gente che si è giocata tutto nell'ultima scommessa per dare una svolta alla propria vita e purtroppo quella scommessa l'ha persa. Tra loro c'è anche un bambino, ma con gli altri, con gli stessi diritti degli altri, con lo stesso dolore dei suoi compagni di sventura e lui lo sapeva bene. Anche questa volta ho l'impressione che si cerchi di toccare le corde più sensibili della società per creare l'effetto indignazione in un pubblico ormai fatto solo da egoisti completamente proiettati sul proprio guscio familiare. E' cosi. Se si fossero commentati solo quelle dieci vite spezzate i lettori avrebbero avuto un sussulto, un piccolo movimento del sopracciglio, ma sarebbe passato tutto in fretta. In fondo chi sono questi immigrati: morti di fame, mal vestiti, con gli abiti logori e che non potranno mai permettersi un tavolino nel privè del Billionaire. Nessuno di noi si sarebbe mai identificato con gli ultimi della terra. Con un bambino è diverso, a una certa età i ragazzini sono tutti uguali e se io penso a un piccolo maghrebino, somalo o nigeriano, automaticamente mi viene in mente l'immagine di mio figlio che mi viene incontro mentre esce dalla scuola mano nella mano coi suoi amichetti multirazza e multicolore. Quindi la compassione per la piccola vittima non è altro che un ulteriore ripiegarsi nel proprio guscio familiare, non riuscendo, spesso, a provare quella compassione con la quale i latini volevano definire il soffrire insieme. Il richiamo ai bambini quindi ci fa aumentare l'indignazione meglio di qualsiasi ideologia o religione. Questa ossessione alla protezione per i bambini a un primo sguardo potrebbe sembrare meritoria, in realtà, secondo me è uno dei grandi handicap della società italiana che, soprattutto negli ultimi anni, sta sfornando un esercito di mocciosetti con la testa sempre piantata in uno schermo (console per videogiochi, televisore o schermo del PC non fa differenza), abbastanza incapace di relazionarsi col prossimo e sempre pronta a ricorre ai genitori appena sorgono le prime naturali difficoltà. Non si contano gli episodi in cui dei genitori inveiscono contro i professori perchè troppo severi, senza nemmeno pensare di dare un sonoro scapaccione al figlio che ha preso l'ennesimo quattro in matematica, o i casi in cui, tra genitori, il turpiloquio dei ragazzini o l'offesa al coetaneo vengono apprezzati come un segno di intelligenza e furbizia. Per non parlare di quanto avviene in occasione di partite di calcio tra piccoli calciatori, dove un qualsiasi fallo di gioco viene giudicato come un attentato al piccino e il genitore si sente in dovere di vendicare l'offesa con qualsiasi mezzo, foss'anche una lite con un essere che ha quaranta anni meno di lui. Richiedere la perdita della patria potestà e rinchiudere questi pargoletti in mega scuole materne - riformatorio  sarebbe assurdo e fuori dal tempo, ma forse creerebbe i presupposti per un futuro un po' più accettabile. Il protrarsi di questa situazione porterà a una società di bamboccioni lobotomizzati, incapaci persino di comunicare con i coetanei e col mondo, anche a trent'anni con la paghetta dei genitori in tasca e la zuppa di latte a colazione. Vi prego di salvare i pargoli dalle grinfie dei miei coetanei, educare non è affar nostro. Siamo appena appena capaci di badare a noi stessi, non chiedeteci pure di educare le nuove generazioni, non chiedeteci di perdere del tempo a parlare, a giocare, a spiegare ai nostri piccoli un po' di quel che la vita gli sbatterà in faccia, no, non siamo in grado di farlo. Al limite riempiremo gli hard disk dei nostri PC con le loro foto, gli compreremo l'ultimo zainetto alla moda e gli scarpini  di Cristiano Ronaldo appena usciti, e, al ritorno alle 22 dall'ufficio, vedremo di trovare aperto un negozio per comprare il nuovo videogioco di guerra che nemmeno daremo loro perchè stanno già dormendo. 


martedì 29 marzo 2011

Tribunale speciale



La prima immagine che ho della trasmissione è di un sabato mattina verso le nove. Mi sono appena svegliato e, come mi capitava allora ma anche oggi senza interruzione di continuità, accendo la TV per sentire un suono e cominciare ad affacciarmi al nuovo giorno. Capito su questa trasmissione condotta da una splendida Catherine Spaak che alla soglia dei quaranta sembra una casalinga di quelle tanto amate dalla pubblicità. Il programma è in realtà un piccolo studiolo a forma di tribunale, sul modello di quelli visti nei tanti film di Perry Mason, quelli con il giudice al centro e l'accusa e la difesa con lo sguardo ad esso rivolto mentre si sporgono da due ringhiere di legno e l'immancabile giuria popolare che dà un parere però meramente consuntivo e non vincolante (siamo pur sempre in Italia, la patria del diritto!). Si capiva fin da allora che si trattava di una messinscena, con figuranti che recitavano un copione dietro compenso, ma ho sempre pensato che sotto sotto il programma avesse una funzione puramente educativa: in un paese dove i processi civili impiegano un'eternità per andare a conclusione e dove si finisce davanti a un giudice anche per una ciucciata a un lecca lecca data in maniera inappropriata mi sembrava un buon metodo per rendere i cittadini più familiari con il giudice di pace e gli arbitrati in genere che servono per evitare il ricorso in tribunale. La trasmissione ha avuto nel tempo diverse collocazioni e conduzioni, andava al mattino, al primo pomeriggio, a cavallo del pranzo. C'è stato perfino un tentativo di imitazione che va in onda la mattina sulla Rai, ma anche nel caso del clone si tratta di un programma così insignificante che nessuno ne ha mai parlato. Conduttrice storica di questo tribunale televisivo è una signora che ha il solo merito di essere figlia di un servitore dello stato assassinato dalla mafia. La si ricorda pure per un flirt con un uomo di quindici anni più giovane che, anch'esso conduttore, dopo aver presentato miss Italia, la tradisce con un'aspirante al titolo di più bella del reame. Forse si era guadagnata altre due righe in un giornale per un altro paio di flop dei suoi programmi, ma per il resto niente più che un Davide Mengacci con più capelli e un po' più biondi. Tre giorni fa l'inferno. Durante un'"udienza", una figurante nell'esporre il suo caso al giudice parla dell'Aquila come di una città che, a due anni dal terremoto, è completamente ricostruita, un posto in cui la gente vive bene e prospera, mentre coloro che si trovano ancora negli alberghi lo fanno solo perchè non hanno voglia di rimboccarsi le maniche e vivono al mare a spese dello Stato. La conduttrice avalla un po' questa tesi, soprattutto quando si sostiene che il merito di tutto ciò è del Presidente del Consiglio e del suo fido collaboratore Bertolaso. 
Inutile stare qui a parlare di come la gente vive oggi all'Aquila, di una città che è ferma alla notte del 6 aprile del 2008, di disoccupazione giovanile che nella provincia dell'Aquila è doppia rispetto al resto del paese, di un'università che ha perso migliaia di iscritti, del fatto che non c'è nessuna data certa per l'inizio della ricostruzione della città, di un tessuto economico e infrastrutturale da ricostruire completamente. E' inutile dire che il datore di lavoro di questa cara signora, colui che mette i soldi per andare in onda è lo stesso che si è occupato dell'emergenza terremoto facendone uno spot personale e oscurandone in pieno il totale fallimento, inutile ricordare che vi sono almeno un paio di inchieste della magistratura che dovranno mettere luce sull'operato della protezione civile e delle ditte da essa incaricate a gestire le prime fasi del dopo-terremoto, è inutile ribadire che i programmi di intrattenimento sono molto più influenti sulle opinioni politiche degli elettori rispetto ai programmi di politica: quando ci si mette a guardare un programmino del mattino non si sta attenti a tutto ciò che succede, non ci si è preparati eventualmente al fuoco di fila ideologico, in genere i messaggi che si vogliono far passare vengono offerti in maniera soffusa, quasi incomprensibile. Lasciando stare tutto ciò, la domanda che da due giorni mi attanaglia è: ma questa signora, che penso abbia almeno un minimo di intelligenza, ha riflettuto su quanto stava accadendo o ha pensato che a quell'ora tra una girata al sugo e un'occhio al ferro da stiro che sennò brucia tutto l'avrebbe di nuovo fatta franca? Si è dimenticata che la rete, una comunità di esseri pensanti e non un singolo indifeso, costituisce ormai il vero cane da guardia del potere, dell'informazione e dell'intrattenimento ed è molto difficile farla franca sotto milioni di occhi?


martedì 22 marzo 2011

Nomen omen



Musa, quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra
Gittate d'Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr'esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritâro il nume,
Che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh! parte almen di sì ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

(Omero, Odissea,  Libro Primo)


Mi sono sempre chiesto se all'interno delle questure, delle caserme e dei comandi dei carabinieri o della guardia di finanza oppure nello stato maggiore dell'esercito ci fosse un'ufficio apposito o un team di esperti deputati a trovare un nome alle diverse operazioni di polizia o di guerra. E' un modo un po' yankee di comportarsi: dare un nome a quello che in fondo non è altro che un progetto, anche se si tratta di arrestare l'intero consiglio comunale di un paese o una banda di borseggiatori di vecchiette all'uscita dall'ufficio postale, oppure di liberare l'Europa dal dominio nazista. In fondo non è altro che un progetto e anche mediaticamente è facile rappresentare una complessa operazione con un nome accattivante che si imprima immediatamente nelle menti dei telespettatori davanti alla TV nell'ora di punta. Esempi nel corso della storia sono molteplici: il "D-day" e lo sbarco in Normandia, la "Operazione Colosseo" che decapitò quasi definitivamente i vertici della banda della Magliana, la "Operazione Odessa" o "Valchiria" rese celebri dal cinema e poi "Manipulite" e "Toghe sporche" per rimanere nell'ambito italiano. L'elenco è lungo e sarebbe impossibile riportare tutti quei nomi che suonano un po' ridicoli e spesso vengono ignorati per decenza dai giornali e dai servizi televisivi. Gli statunitensi poi sono i maestri di quest'arte, affinata negli anni con perle tipo "Desert Storm" ai tempi dell'Iraq nel 1991 o "Enduring Freedom" per la guerra in Afghanistan di dieci anni dopo. La prima non fu una vera e propria tempesta, ma un semplice acquazzone, tanto che il Raìs di Baghdad è rimasto in carica altri 10 anni e Bush Jr ha dovuto portare a termine con l'inganno il lavoro iniziato con la pioggerellina di Papà. Per ciò che concerne la libertà in Afghanistan in realtà manca da più di qualche decennio e, in totale assenza di questa, come possa definirsi duratura...forse è solo un auspicio! Purtroppo però le guerre non sono finite e con loro questi team di genialoidi che studiano l'onomastica delle operazioni. Pochi giorni fa ci hanno regalato una perla di rara bellezza: "Odyssey Dawn". Letteralmente vorrebbe dire "L'alba dell'Odissea" o con qualche forzatura anche "L'inizio dell'Odissea", anche se qualche italiano continua a tradurlo come odissea all'alba, ma in ogni caso: perchè? Perchè l'idea dell'odissea e dell'alba? Che cosa vuol dire l'inizio dell'Odissea? Forse ci si riferisce ai primi versi della traduzione del Monti o a quelli originali di Omero? E poi l'odissea, per definizione, dà l'idea di una cosa che continua all'infinito senza risolversi se non dopo decenni e a prezzo di infinite peripezie e perdite umane. Si vorrà forse iniziare un attacco con questi presupposti? Sarebbe quasi più normale che un nome del genere lo trovasse chi difende e non chi attacca. Almeno starebbe lì a dire: provate pure ad attaccarci, ciò si rivelerà per voi un Odissea! E' come se Hitler avesse chiamato l'attacco alla Russia "Stalingrado in ogni città" oppure l'ufficio pubblicità dell'esercito africano al comando di Annibale avesse chiamato l'invasione di Roma "Nun ce prova'!".


mercoledì 16 marzo 2011

Dieci



Mi ricordo che quella mattina di dieci anni fa c'era il cielo velato. Il mio caro amico Francesco mi venne a prendere a casa che non erano ancora le otto. Andammo a bere un caffè al bar dell'università che aveva appena aperto. Fumai una sigaretta subito. Ricordo che la sera prima mi stava per cadere addosso l'armadio: il peso dei vestiti aveva distrutto l'asta che mantiene le stampelle. Arrivammo all'università che stava appena facendo giorno. La primavera ancora non era iniziata ma già a Roma si respirava l'aria mite dei pomeriggi di Maggio e si sentivano gli uccellini cinguettare. Avevo un abito blu scuro e non c'era stato bisogno di indossare il soprabito. Ricordo che più di un'ora dopo arrivarono tutti i miei amici e poi anche i parenti, i miei genitori e la mia ragazza di allora. Parlai solo pochi minuti col relatore della mia tesi, era calmissimo, vestito in maniera impeccabile e sicuro che sarebbe andato tutto bene. Andò alla grande. Fui il terzo su cinque. La discussione durò poco più di un quarto d'ora, il presidente si mostrava interessato e partecipe e alla fine mi fece pure una domanda facilissima, alla quale risposi col sorriso sulle labbra. Era giunta la fine di uno dei periodi più belli della mia vita. Di quel pomeriggio non ricordo molto. Ho impresso nella mente un'immagine su una scala della mia facoltà di fronte alla sala delle discussioni di laurea. Ci sono tutti i miei amici di allora e i miei genitori e i miei fratelli. Mi torna in mente quando siamo usciti dalla facoltà e ci siamo accomodati su un muretto che per anni aveva aspirato il fumo delle nostre sigarette del dopo pranzo prima di riprendere a studiare o a fare lezione nel pomeriggio. Quella è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì. Ricordo ancora di quel pomeriggio una grande stanchezza dovuta più che altro alla tensione e al dover ricevere complimenti e auguri da tutti gli amici che erano venuti a salutarmi. Ricordo che andai a letto e la sera mi portarono in un locale anche se le immagini sono confuse: mi sovviene più che altro la sbronza con la quale tornai a casa distrutto finalmente a dormire. Quel pomeriggio ci fu un brutto episodio per le strade di Napoli. Ragazzi manifestanti fermati e sequestrati per ore dalla polizia. Cominciava un periodo caldo di scontri tra polizia e autonomi o no-global o ragazzi del movimento o black block come poi vennero tristemente battezzati dopo i fatti di Genova di quattro mesi dopo. Domani saranno 150 anni dall'Unità d'Italia ma a anche 10 da un giorno per me indimenticabile. 


martedì 15 marzo 2011

ilovejapan


In questi giorni Giappone vuol dire terremoto, tsunami, radiazioni nucleari, energia elettrica razionata, economia al collasso, più grande tragedia degli ultimi cinquant'anni, diverse migliaia di morti. Per me il Giappone sarà sempre Takeshi Kitano, i ragazzi coi capelli lisci e le creste coi gel che tanto piacciono agli EMO di tutto il mondo, le ragazzine con l'uniforme della scuola e gli scaldamuscoli bianchi di lana, i cartoni di quando ero piccolo dove tutti avevano degli occhi grandissimi, Naoto Date e Mister X, Hiroshima e Nagasaki, la Nissan, la Toyota e la Sony, l'imperatore e i Samurai, la Yakuza e gli splendidi tatuaggi, le frotte di turisti macchinafotograficadotati in giro per la mia città o a cena in un ristorante vicino casa mia, Chicago, la moglie di un mio caro amico, dei ristoranti bellissimi dall'atmosfera soffusa dove si mangia da re e ci si alza con la voglia di ritornarci subito, i sindacati gialli, gli asili nelle fabbriche e le foto coi dipendenti più longevi e produttivi, Tokyo e la finale della coppa intercontinentale alle cinque del mattino con le immagini sbiadite, gente che studia milioni di ore nella vita per raggiungere un obiettivo, basti vedere ciò che è stato fatto nelle arti visive e nella musica classica in pochissimi decenni dalla fine della seconda guerra mondiale, gli ideogrammi e i campionati nazionali per stabilire chi ne conosce di più, il rispetto per gli altri e il sentirsi sempre parte di una comunità, la discrezione nel rapportarsi alla gente e nel manifestare i propri stati d'animo, Kikuko, una ragazza conosciuta venti anni fa Cambridge, gli origami e la palla rossa su sfondo bianco della sua bandiera. A presto. 

    

lunedì 14 marzo 2011

Il falco



E' quasi impossibile che un ex sportivo sia in grado di raccontare una qualsiasi competizione del suo o di altri sport. In fondo perchè dovrebbe. Non è raro il caso in cui campioni affermati in una determinata disciplina, una volta diventati allenatori, non confermano le attese e si rivelano dei brocchi. Lo stesso avviene in altri campi dello scibile. Un grande pittore non è sempre in grado di insegnare una tecnica o trasmettere una certa sensibilità, e lo stesso vale per un ingegnere o un fisico nucleare: non è detto che sappiano anche spiegare tutto ciò che sanno. Paolo Savoldelli da Clusone non era nemmeno un campionissimo nel suo sport. Era un ciclista, certo bravo, capace di un bel po' di azioni da fuoriclasse e in più vincitore di qualche classica importante e di due giri d'Italia. A me personalmente non è mai piaciuto e in più appartiene a una generazione di ciclisti che spesso ha dovuto fare i conti col doping. Soprannominato il falco per la sua capacità di attaccare in salita, si segnalava anche per un carattere levantino che gli aveva fatto guadagnare i gradi di colonnello nel gruppo. Ha smesso quattro anni fa e adesso fa il commentatore di ciclismo in tv. Sabato era un bel pomeriggio di fine inverno. Uno di quei pomeriggi da Milano-Sanremo e infatti manca solo una settimana alla grande classica di inizio della primavera. C'era una tappa della Tirreno-Adriatico con arrivo dopo qualche chilometro di salita spaccagambe a Chieti. La tappa l'ha vinta Michele Scarponi con a ruota un grande Damiano Cunego che è riuscito a rintuzzare gli attacchi di altri tre corridori nell'ultimo chilometro e a scortare il suo capitano di giornata fino al traguardo. Savoldelli era in moto in collegamento dalla corsa. Quattro-cinque interventi, secchi, precisi. Una capacità innata di leggere la corsa, di studiare le rughe della fronte dei corridori per vedere quanto hanno ancora da spendere. Nessuna concessione alla retorica e a inutili esercizi verbali, nessuna voglia di rendere epico ciò che è solo una corsa. Accento bergamasco che fa tanto ciclismo di una volta e una voglia matta di essere sempre in gruppo anche se solo col taccuino in mano. Alla fine di ogni intervento passa la linea all'altro conduttore. Ritmo, nessuna interruzione, un bello spettacolo.

giovedì 10 marzo 2011

Divergenze parallele



La potenza di qualsiasi gesto simbolico tende a scemare con l'aumento del numero di iterazioni. Voglio dire che se una protesta contro un governo o un regime viene perpetrata più volte nel tempo, col tempo, si perdono le ragioni dell'indignazione del moto spontaneo che porta la gente a scendere in piazza e in più si perde l'effetto di straordinarietà dell'evento e quindi il suo valore simbolico. Tutto questo, però, è valido solo nel caso in cui la società all'interno della quale si generano queste proteste è ancora in grado di sottintendere un concetto minimo di democrazia e non pretenda piuttosto di sollevare l'ordine costituito e ribaltarlo completamente. E' il caso dell'Italia, democrazia che non ha ancora dimenticato di esserlo. Negli ultimi tempi non esiste un movimento spontaneo, un gruppo di intellettuali, un partito, sindacato, associazione di categoria, che non abbia protestato contro il governo in carica. Si sono viste proteste di qualsiasi tipo: dalla manifestazione oceanica con concertone finale, al flash mob davanti alla RAI o a Palazzo Chigi, fino ai gesti più violenti di autonomi che hanno boicottato gli interventi di Dell'Utri o Bonanni anche se in occasioni diverse. Alla fine questi riti sembrano ripetersi stancamente e anche i più attivi partecipanti tendono ad attribuire una scarsa efficacia a proteste del genere. Tutto ciò, ripeto, vale però sono in una democrazia matura dai riti un po' stanchi come l'Italia. Nel caso invece di molti regimi a scarso tasso di democrazia l'abitudine a mostrare in piazza la proprie opinioni è un po' meno diffusa, causa repressioni più o meno violente. Sotto i regimi autocratici (prendiamo ad esempio gli stati Nordafricani, simbolo delle rivolte popolari di questi ultimi mesi, dalla Tunisia all'Egitto e adesso la Libia) non si scende in piazza come e quando si vuole per dimostrare un dissenso o un disagio, le uniche manifestazioni sono dei bagni di folla di questi dittatori oppure le più macabre e pacchiane parate militari. Quando succede che le popolazioni, spinte dall'esasperazione e dalla consapevolezza che non c'è più nulla da perdere perchè non si ha più niente, cominciano ad occupare le piazze e a rendere palese che lo stato delle cose non va, che non si è più disposti a subire i soprusi di una classe politica corrotta, che non si ha più nemmeno il minimo per vivere mentre il tiranno è una holding da miliardi di dollari di fatturato all'anno, allora lo scenario cambia. Queste manifestazioni non perdono il loro significato di evento rivoluzionario, anzi danno la speranza che, non essendoci rimasto più niente, almeno la dignità e la speranza di sopravvivere vanno difese anche a costo della vita. Soprattutto danno il segno che la paura può essere sconfitta e le popolazioni possono trarre forza dalla loro compattezza. Con questo non ci si augura naturalmente di essere meno liberi o più disperati per poter manifestare meglio ciò che secondo noi non va. Forse si tratta solo di ripensare forme di dissenso che non necessariamente devono concentrarsi in un luogo, ma andrebbero portate avanti da ciascuno nel suo vivere quotidiano. La manifestazione è un elemento tipicamente pre-rivoluzionario, i comportamenti e la stessa educazione civica quotidiana si adattano meglio a forme di pressione che rifiutano la violenza.


venerdì 4 marzo 2011

Proteggere i protettori



Fino a qualche anno fa non se ne sapeva nemmeno il nome. In realtà sono meno di venti anni che l'Italia ha istituito questo corpo di volontari, anche se negli ultimi anni si è avuta un'accelerazione nelle competenze e nella visibilità della Protezione Civile. In un paese normale questa istituzione entra in azione nel momento in cui vi è un'emergenza e occorre un contributo immediato in favore di popolazioni colpite un evento naturale o da una catastrofe dovuta all'azione dell'uomo. Da qualche anno, complice il Primo Ministro e il suo sottosegretario con la polo blu, è diventata un vero e proprio esercito di volontari che non perdono occasione per mostrare le loro tute gialle e verdi con le strisce catarifrangenti. Questo fenomeno, che a livello nazionale si traduce in una serie infinita di conferenze stampa del portatore sano di polo blu che mostra la sua capacità organizzativa nelle più disparate occasioni, dai funerali del Papa, al Giubileo, al terremoto dell'Aquila, inevitabilmente si riverbera a cascata in ogni angolo d'Italia in cui vi sia almeno un televisore acceso. Ad esempio nel paese in cui sono nato, poche migliaia di abitanti, c'è un gruppo compatto di volontari che in qualsiasi occasione, dalla processione del santo patrono all'ultima sagra del maccherone fatto in casa, ci sono sempre. Si armano della loro tuta multicolore, vestono lo sguardo da NOCS in missione e sono pronti a far rispettare i loro ordini anche a costo di qualche spinta o risposta poco garbata. In molti casi si tratta di esaltati che hanno troppa paura per arruolarsi e imbracciare un'arma ma che si sentono così bene in divisa e giocano a fare i piccoli commandos. Negli altri casi, sono persone che trovano una realizzazione personale che in borghese non avrebbero. Dall'altra parte d'Italia però succede che poche settimane fa vicino Bergamo è scomparsa una piccola ragazzina di dodici anni. Questi volontari, spinti dalla solidarietà e dall'impegno nell'aiuto degli altri, si sono messi subito in moto per battere le campagne circostanti i luoghi della scomparsa alla ricerca della ragazzina. Purtroppo pochi giorni fa il corpo esanime della dodicenne è stato trovato in un campo a breve distanza dal suo comune di residenza. Un campo a cielo aperto, perfettamente visibile dalla strada e, secondo i rilievi del medico legale, il corpo giaceva in quel luogo sin dal primo momento della scomparsa, circa tre mesi prima. Il giorno stesso sono cominciate a circolare voci sull'inefficienza della Protezione Civile e sull'incapacità di svolgere questo compito in maniera appropriata. Il fatto è che per certe attività la buona volontà non basta, anzi è inutile. Se io non sono in grado di alzare una parete di mattoni, posso impegnarmici gratuitamente per mesi interi profondendo un lavoro encomiabile, alla fine dopo pochi minuti la parete cadrebbe lo stesso. Le attività investigative sono svolte da professionisti che studiano anni, vengono pagati per fare questo lavoro e sono soggetti anche a critiche e ad apprezzamenti come chiunque svolga professionalmente la propria mansione. Un volontario non può essere condannato perchè è incapace, è come voler condannare un ingegnere perchè non sa giocare a ramino. L'ingegnere deve costruire dei palazzi che stiano in piedi, il volontario deve metterci la gratuità del suo tempo, non una professionalità che di fatto non possiede. Prima di creare improbabili eserciti di volontari per parate più o meno ridicole, si farebbe meglio a rispettare il grande sforzo di questi volontari che impiegano il loro tempo per gli altri, pur non avendo specifiche capacità.


mercoledì 2 marzo 2011

Paura



E chi glielo spiega adesso al ministro La Russa che gli eroi sono solo buoni per le quattro chiacchiere con cui intrattiene i suoi colleghi in Parlamento o, peggio, e nei salotti televisivi. Chi gli ricorda che a volte la retorica suona ancora più sinistra per i parenti che attendono un corpo che non tornerà più. Immaginare un soldato in guerra è una cosa davvero difficile. A me capita spesso in questi giorni, dopo che purtroppo un altro soldato è stato ammazzato in Afghanistan. Si pensa alla sveglia cadenzata dai vari turni di guardia, al morale sotto i piedi, all'armamento pesantissimo che ti fa sudare ad ogni passo, a quel maledetto giubbotto antiproiettile che da solo pesa quasi venti chili. E poi manca casa, la ragazza,la moglie, i figli, e allora i pensieri si addensano nella mente e tornano le lugubri immagini delle bandiere che avvolgono le bare. E allora è meglio non pensarci, inforcare gli occhiali da sole e uscire in pattuglia. Non hai il tempo di pensare a chi ti ha mandato qui, a che cosa ha spinto il nostro paese a partecipare ad una missione, a chi si farà fregio della tanta fatica che fai ogni giorno. E poi c'è la paura. Penso sia il sentimento più diffuso in una caserma al fronte. Gli scoppi che ti fanno sobbalzare nella notte, le continue precauzione che prendi ad ogni passo che fai, il dito sempre puntato sul grilletto, la minaccia che si nasconde in una cinta sotto la tunica di una donna o di un bambino. Sì, la paura. Il mito del soldato orgoglioso di andare a fare la guerra è roba da vecchiacci in panciolle che hanno perso il gusto della vita. Per un ragazzo tutto è meglio di una guerra. Sarà bene ricordare a tutti coloro che si riempiono la bocca "dei nostri ragazzi" che chi sta al fronte non ha nulla di eroico, è un professionista e spesso ha paura. Sa a cosa va incontro e sarebbe molto più contento se si rispettasse il suo lavoro, il suo non essere un eroe, la sua paura.