tremendieventi

venerdì 28 maggio 2010

La prova del pirla-cuoco



Un giorno acquistai un libro scritto da uno dei più famosi chef al mondo. Parlava del suo lavoro, del suo rapporto con gli ingredienti e coi colleghi, di come far funzionare la cucina di un ristorante come una catena di montaggio o un esercito, di come un cuoco, soprattutto se lavora negli Stati Uniti, non può fare a meno di avere conoscenze di economia e finanza e capacità manageriali per trattare coi fornitori e con i collaboratori in cucina. La descrizione della sua giornata tipo mi lasciò senza parole e senza speranza. Assumeva quasi otto aspirine al giorno, beveva una quantità tipicamente americana di drink e di caffè, non riusciva a curare una fastidiosissima e decennale emicrania e, soprattutto agli inizi della sua carriera usava il coltello, l'unico strumento che usa uno chef professionista oltre alle mani e al cervello, quello che si porta sempre attaccato alla cintura dei pantaloni, non solo per affettare, ma spesso anche per scoraggiare cattive intenzioni di colleghi, capi e fornitori coi pagamenti in sospeso. E' ancora oggi uno dei libri più belli che abbia mai letto perchè coniuga un'immensa capacità esplicativa, tipica dei manuali di scuola statunitense, ad un'ottima abiliità rappresentativa utilizzata per descrivere le diverse esperienze capitate in decenni di carriera a diverse latitudini della terra. La cosa che più mi impressionò di quel libro era il monito che rivolgeva a quei borghesi amanti del buon cibo e del buon vino che, ad un certo punto della loro vita, dopo aver raggiunto buoni traguardi nelle loro professioni, sul finire della carriera, decidono che sì, sarebbe davvero una bella idea mettere su un ristorante o comunque un posto dove dare da mangiare alla gente. Sconsigliava vivamente questa gente di mettersi dall'altro lato del banco, al di là delle porte a soffietto della cucina, con i pantaloni sale e pepe e una bella scoppola bianca in testa. Aveva ragione. Non poteva essere diversamente, sennò non sarebbe stato uno dei più grandi cuochi viventi. Perchè si deve pensare che per fare l'avvocato, l'antennista, il coiffeur, l'estetista, il chirurgo ad un certo livello servano anni di studio e di esperienza e invece per gestire un bar, una tavola calda, un ristorante si possa inziare in poche settimane? Perchè non si vuole accettare la normale gavetta che è tipica di tutte le professioni e non si ha l'umiltà di capire che servire la gente non è una cosa da tutti e far da mangiare è difficilissimo e andrebbero premiati ogni giorno quelli che riescono a farli a prezzi ragionevoli? Se capissimo queste poche cose eviteremmo di far vivere alla gente quello che ho vissuto io oggi. Un bancone pieno di gente che si pesta i piedi e non riesce a servirti in tempi ragionevoli, un quarto d'ora per pagare perchè la cassiera litigava con una collega a causa di uno scontrino emesso erroneamente, un prezzo esagerato per una tavola calda, una semi doccia dovuta a coperture esterne insufficienti e una cameriera col fiato sul collo che ha aspettato impazientemente l'ultima forchettata del mio risotto per scipparmi a tempi di record il vassoio da sotto le mani. In questi casi sarebbe meglio esporre la P di principiante (o pirla) all'ingresso, come si fa con i neo-patentati.


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