tremendieventi

martedì 8 febbraio 2011

Alberiuomini




Leggo sul giornale di un progetto di un veterano della guerra in Iraq che due anni fa, di ritorno appunto dal fronte, decide di mettere su un'impresa agricola in California. Il suo lavoro va così bene che diventa un punto di riferimento negli Stati Uniti per la riabilitazione dei reduci e il loro reinserimento nel tessuto economico e sociale di quella nazione. L'episodio nella sua genialità è quasi banale e mi riporta alle memorie di un anziano signore nato negli anni Venti del secolo scorso che mi aveva raccontato un episodio simile. Partito per il fronte tra la Grecia e l'Albania intorno al 1939, ad appena diciotto anni, aveva fatto ritorno a casa dopo l'8 settembre con ancora negli occhi gli orrori del conflitto ancora in corso. I corpi dei commilitoni utilizzati come scudo durante gli attacchi dei nemici, la processione dei pidocchi lungo il lavandino quando la sera si tornava in caserma, l'accusa di sabotaggio quando, fatto prigioniero dai tedeschi e costretto a lavorare in una fabbrica di assemblaggio di aerei militari, si addormenta con il trapano in mano e fa un buco quattro volte più grande di quello che era sufficiente a fissare l'elica alla carlinga dell'aereo. E poi il cibo fatto quasi esclusivamente di patate, la pelle sottile dei tanti morti di fame incontrati e lasciati sulla strada e la benevolenza di tante generose donne dell'est Europa che con le loro premure scaldavano lo stomaco e l'anima, infine il ritorno a casa come un'avventura a bordo di treni dirottati nelle stazioni di mezza Italia. Ne erano passate talmente tante davanti ai suoi occhi che a distanza di cinquanta anni e senza avere mai imparato a scrivere o a raccontare quegli avvenimenti, poteva tenerti delle giornate intere e farti rivivere i cieli grigi dei primi anni Quaranta. Bene, un giorno mi portò nel posto che secondo lui gli aveva salvato la vita: la campagna. Mi raccontò che i primi tempi tornato dal fronte, non riusciva a sentire nessun rumore, persino i rari postali che sbuffavano nella piazza del suo paese lo angosciavano e allora aveva deciso di dedicarsi al silenzio. Aveva vissuto quasi quattro anni in campagna a coltivare tutto ciò che quella terra avara riusciva a far crescere. Certo, c'era bisogno di cibo, erano tempi magri e affamati, e pure ciò che più ricordava era il canto  degli uccelli, il fruscio del vento che attraversa i pomodori che stanno per maturare, la leggerezza dell'acqua che si poggia sulla lattuga e sui cavoli. Non aveva fatto l'agricoltore, nè era diventato ricco con quella pratica, la sua azienda non era un modello da esportare e il governo non gli avrebbe mai richiesto una consulenza per il reinserimento delle reclute in congedo, e pure se era vivo e riusciva ancora a provare dei sentimenti era solo grazie alla terra. La terra gli aveva restituito la testa perchè lo aveva riaccolto tra le sue zolle e, attraverso la sintesi clorofilliana, lo aveva fatto rifiorire.


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