Appena sceso dall'aereo ebbi l'impressione di trovarmi a milioni di chilometri di distanza dal mondo dal quale provenivo. Non era snobismo, era che forse l'aria troppo grigia delle nostre città a volte ci fa dimenticare chi siamo e chi erano i nostri nonni. Ma fu solo un attimo. Era in realtà solo un'isola di quel bellissimo paese, culla della civiltà, eppure io la percepii come l'essenza di quello Stato. Di quell'insieme di rudezza e calore che è tipico degli uomini che sono nati sulle sponde del grande lago che bagna l'Europa, l'Africa e il Medio Oriente. Ci sono dei tratti che accomunano gli uomini di Smirne e Alcamo, Marsiglia e Bengasi e in quel luogo sembravano rivelarsi tutti in un colpo solo, appena uscito dalle porte scorrevoli del piccolissimo scalo aereo. L'autista del taxi ci fece salire in sette su un'automobile, stipò tutti i bagagli alla buona nel cofano della macchina che rimase spalancato, ci disse di fidarci ciecamente di lui che per appena 10€ ci avrebbe portati al nostro albergo. Tassametro zero, ci mancherebbe. Forse non ho mai visto un tassametro in sette giorni passati in quell'isola a farmi accompagnare da una sponda all'altra da taxi di tutti i tipi, guidati da soggetti improbabili, ma sempre amichevoli e dipsonibili. La gente lì è nata per il turismo, che è comunque la seconda industria del Paese, dopo quella navale. Mi è capitato di conoscere gente che proviene da quei luoghi in diverse occasioni: al lavoro, all'università, nei viaggi e non mi hanno mai deluso. Hanno lo sguardo austero che rivela una certa diffidenza, ma appena comprendono che anche tu bagni i tuoi piedi nella stessa conca di mare, ti arrostisci allo stesso sole, hai le stesse rughe segnate dalla stessa salsedine, non esitano ad offrirti la loro disponibilità e a metterti a disposizione insieme quel poco o tanto che hanno in tasca. Mi stupì subito il grande contrasto tra la ricerca sfrenata della modernità e un rispetto quasi sacro per le tradizioni. Il mescolarsi a distanza di pochi metri delle cattedrali della vita notturna, a base di distillati inglesi o americani, contrapposti alle candele lunghe e sottili delle chiese bizantine, le icone austere, che comunque restituiscono il volto umano della religione. In quei sette giorni ho avuto spesso l'impressione che il tempo si fosse fermato alla seconda guerra mondiale, quando i cappelli neri dei papàs ortodossi svettavano in mezzo agli elmetti dei soldati italiani che in molte di quelle terre scoprirono il controcanto delle cruente battaglie che pochi mesi dopo si sarebbero consumate tra le steppe russe. Tornerei volentieri in quei luoghi o in qualche altra delle centinaia di isole che fanno quel Paese. Proprio oggi ci tornerei, mentre monta la furia sociale per un tracollo economico che menti poco lungimiranti ma molto egoiste hanno prima contribuito a generare e poi scelto di non fermare.
tremendieventi
giovedì 6 maggio 2010
Pessime nuove alle soglie dei nostri giardini
Appena sceso dall'aereo ebbi l'impressione di trovarmi a milioni di chilometri di distanza dal mondo dal quale provenivo. Non era snobismo, era che forse l'aria troppo grigia delle nostre città a volte ci fa dimenticare chi siamo e chi erano i nostri nonni. Ma fu solo un attimo. Era in realtà solo un'isola di quel bellissimo paese, culla della civiltà, eppure io la percepii come l'essenza di quello Stato. Di quell'insieme di rudezza e calore che è tipico degli uomini che sono nati sulle sponde del grande lago che bagna l'Europa, l'Africa e il Medio Oriente. Ci sono dei tratti che accomunano gli uomini di Smirne e Alcamo, Marsiglia e Bengasi e in quel luogo sembravano rivelarsi tutti in un colpo solo, appena uscito dalle porte scorrevoli del piccolissimo scalo aereo. L'autista del taxi ci fece salire in sette su un'automobile, stipò tutti i bagagli alla buona nel cofano della macchina che rimase spalancato, ci disse di fidarci ciecamente di lui che per appena 10€ ci avrebbe portati al nostro albergo. Tassametro zero, ci mancherebbe. Forse non ho mai visto un tassametro in sette giorni passati in quell'isola a farmi accompagnare da una sponda all'altra da taxi di tutti i tipi, guidati da soggetti improbabili, ma sempre amichevoli e dipsonibili. La gente lì è nata per il turismo, che è comunque la seconda industria del Paese, dopo quella navale. Mi è capitato di conoscere gente che proviene da quei luoghi in diverse occasioni: al lavoro, all'università, nei viaggi e non mi hanno mai deluso. Hanno lo sguardo austero che rivela una certa diffidenza, ma appena comprendono che anche tu bagni i tuoi piedi nella stessa conca di mare, ti arrostisci allo stesso sole, hai le stesse rughe segnate dalla stessa salsedine, non esitano ad offrirti la loro disponibilità e a metterti a disposizione insieme quel poco o tanto che hanno in tasca. Mi stupì subito il grande contrasto tra la ricerca sfrenata della modernità e un rispetto quasi sacro per le tradizioni. Il mescolarsi a distanza di pochi metri delle cattedrali della vita notturna, a base di distillati inglesi o americani, contrapposti alle candele lunghe e sottili delle chiese bizantine, le icone austere, che comunque restituiscono il volto umano della religione. In quei sette giorni ho avuto spesso l'impressione che il tempo si fosse fermato alla seconda guerra mondiale, quando i cappelli neri dei papàs ortodossi svettavano in mezzo agli elmetti dei soldati italiani che in molte di quelle terre scoprirono il controcanto delle cruente battaglie che pochi mesi dopo si sarebbero consumate tra le steppe russe. Tornerei volentieri in quei luoghi o in qualche altra delle centinaia di isole che fanno quel Paese. Proprio oggi ci tornerei, mentre monta la furia sociale per un tracollo economico che menti poco lungimiranti ma molto egoiste hanno prima contribuito a generare e poi scelto di non fermare.
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